Internet, McDonald’s e la Coca Cola: le frontiere si abbattono
L’America e l’Asia sono più vicini, i Paesi poveri un po’ meno La globalizzazione è l’ultima vera grande rivoluzione che ha investito tutti gli aspetti della nostra società sia dal punto di vista sociologico, culturale e soprattutto economico.
I primi sociologi a spiegare questo fenomeno furono Anthony Giddens che parlò di disembedding, cioè l’annullamento della separazione dei concetti di spazio e tempo, e Marshall McLuhan che definì il mondo moderno come un villaggio globale, nato grazie ai nuovi mezzi di comunicazione. Internet, infatti, è il fenomeno più evidente di globalizzazione, un luogo dove le informazione viaggiano in tempo reale e grazie al quale è possibile che una piccola azienda di calzature italiana possa essere conosciuta in tutto il mondo.
Purtroppo però chi ha avuto i maggiori benefici, dal punto di vista economico, sono state solo le multinazionali, americane come la Coca Cola e McDonald’s che con i loro prodotti hanno conquistato il mondo. Tutto ciò ha portato un maggiore squilibrio tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri e alla nascita del movimento dei no global che vedono nella globalizzazione anche una sorta di “dittatura culturale”. In Francia, per esempio, di questa protesta si è fatto portavoce Josè Bovè, un allevatore francese che lotta per la difesa dei prodotti nazionali.
La globalizzazione ha però anche i suoi aspetti positivi in quanto un allargamento della torta del mercato globale non porta necessariamente ad un ulteriore impoverimento dei Paesi poveri, ma può favorire anche le economie tradizionalmente deboli come il Brasile, l’India e i Paesi denominati “tigri asiatiche”. Honk Hong, Korea e Taiwan, infatti, hanno avuto un forte boom economico al quale purtroppo è poi seguita, sul finire degli anni novanta, una crisi finanziaria che ha investito anche il resto del mondo.
C’è da notare poi che la delocalizzazione dei prodotti, costruiti e distribuiti in tutto il mondo, da un lato ha portato ad una maggiore occupazione in determinati Paesi, ma è anche stato un modo per le multinazionali per sfuggire dalle rigide leggi del mercato vigenti negli stati occidentali. Al di là di questi problemi, risolvibili comunque con degli accordi internazionali fra i vari Stati, non si può non vedere l’internazionalizzazione dei mercati come un fenomeno ormai inevitabile, soprattutto dopo l’entrata della Cina nel WTO, l’organizzazione mondiale del commercio.
Per alcuni lo sviluppo industriale cinese è un pericolo e da più parti si punta a legiferare norme di tipo protezionistico che fermino l’avanzata cinese. In realtà il sistema economico mondiale attuale si regge perché i cinesi usano i loro risparmi per comprare i titoli dei buoni del tesoro americani. In un momento in cui il PIL cinese viaggia da vari anni fra il 7% ed il 10%, l’Italia non può permettersi di perdere competitività rispetto ad altri Paesi europei che stanno investendo in questo mercato.
La vera sfida per uno sviluppo realmente sostenibile si può vincere solo se si intende la globalizzazione come un bene dell’intera umanità, e non di una stretta elite che controlla il benessere, come ci insegna Giovanni Paolo II.
L’America e l’Asia sono più vicini, i Paesi poveri un po’ meno La globalizzazione è l’ultima vera grande rivoluzione che ha investito tutti gli aspetti della nostra società sia dal punto di vista sociologico, culturale e soprattutto economico.
I primi sociologi a spiegare questo fenomeno furono Anthony Giddens che parlò di disembedding, cioè l’annullamento della separazione dei concetti di spazio e tempo, e Marshall McLuhan che definì il mondo moderno come un villaggio globale, nato grazie ai nuovi mezzi di comunicazione. Internet, infatti, è il fenomeno più evidente di globalizzazione, un luogo dove le informazione viaggiano in tempo reale e grazie al quale è possibile che una piccola azienda di calzature italiana possa essere conosciuta in tutto il mondo.
Purtroppo però chi ha avuto i maggiori benefici, dal punto di vista economico, sono state solo le multinazionali, americane come la Coca Cola e McDonald’s che con i loro prodotti hanno conquistato il mondo. Tutto ciò ha portato un maggiore squilibrio tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri e alla nascita del movimento dei no global che vedono nella globalizzazione anche una sorta di “dittatura culturale”. In Francia, per esempio, di questa protesta si è fatto portavoce Josè Bovè, un allevatore francese che lotta per la difesa dei prodotti nazionali.
La globalizzazione ha però anche i suoi aspetti positivi in quanto un allargamento della torta del mercato globale non porta necessariamente ad un ulteriore impoverimento dei Paesi poveri, ma può favorire anche le economie tradizionalmente deboli come il Brasile, l’India e i Paesi denominati “tigri asiatiche”. Honk Hong, Korea e Taiwan, infatti, hanno avuto un forte boom economico al quale purtroppo è poi seguita, sul finire degli anni novanta, una crisi finanziaria che ha investito anche il resto del mondo.
C’è da notare poi che la delocalizzazione dei prodotti, costruiti e distribuiti in tutto il mondo, da un lato ha portato ad una maggiore occupazione in determinati Paesi, ma è anche stato un modo per le multinazionali per sfuggire dalle rigide leggi del mercato vigenti negli stati occidentali. Al di là di questi problemi, risolvibili comunque con degli accordi internazionali fra i vari Stati, non si può non vedere l’internazionalizzazione dei mercati come un fenomeno ormai inevitabile, soprattutto dopo l’entrata della Cina nel WTO, l’organizzazione mondiale del commercio.
Per alcuni lo sviluppo industriale cinese è un pericolo e da più parti si punta a legiferare norme di tipo protezionistico che fermino l’avanzata cinese. In realtà il sistema economico mondiale attuale si regge perché i cinesi usano i loro risparmi per comprare i titoli dei buoni del tesoro americani. In un momento in cui il PIL cinese viaggia da vari anni fra il 7% ed il 10%, l’Italia non può permettersi di perdere competitività rispetto ad altri Paesi europei che stanno investendo in questo mercato.
La vera sfida per uno sviluppo realmente sostenibile si può vincere solo se si intende la globalizzazione come un bene dell’intera umanità, e non di una stretta elite che controlla il benessere, come ci insegna Giovanni Paolo II.
Tratto da superkeko1982.blogspot.com
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