di Francesco Curridori | |
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sabato 15 gennaio 2011 | |
54% i sì, 46% i no. È questo il verdetto del referendum sull’accordo sindacale dello stabilimento Fiat di Mirafiori che inchioda le posizioni ambigue e troppo spesso massimaliste del Partito democratico. Il principale partito d’opposizione si è trovato ancora una volta diviso e impreparato su un tema cruciale per l’economia italiana. Se da un lato, nei giorni scorsi, era montata una forte polemica tra Massimo D’Alema e il segretario Fiom Maurizio Landini su chi fosse più vicino al mondo operaio, dall’altro lato Antonio Di Pietro approfittava dell’atteggiamento ambiguo del Pd per farsi portatore delle istanze del fronte del no. A guardare gli esiti del referendum si può notare come i più ostili all’accordo siano stati soltanto gli operai della catena di montaggio iscritti alla Fiom e ai Cobas le cui posizioni sono state sostenute solo da Nichi Vendola e dalla sinistra antagonista di Marco Ferrando e da Marco Rizzo. Stavolta però ha vinto la linea del cambiamento contro quello del mantenimento dello status quo. Non si capisce però se questa possa essere anche una vittoria del Pd perché, dopo le prime aperture a Marchionne da parte di esponenti come Piero Fassino, Enrico Letta e Sergio Chiamparino, il Partito democratico ha dato l’impressione di non aver avuto il coraggio di rompere definitivamente con le posizioni massimaliste della Cgil e della Fiom. Le reazioni immediatamente successive all’esito del voto sono legate ad una linea politically correct, che in italiano si potrebbe tradurre come «cerchiobottista». La verità è un’altra. Dentro il Pd convivono (molto male) due anime: quella ex comunista legata ancora alla Cgil e quella ex democristiana ancora fortemente legata alla Cisl e alla sinistra cattolica. Nel Pd si ripresenta sempre una forte spaccatura tra due anime. Spaccatura che si risolve con il vecchio modello del «centralismo democratico». Si avvia la discussione ma poi la minoranza è costretta a tapparsi la bocca e all’esterno si cerca di nascondere le divisioni, trovando degli escamotage che presentino il partito sempre compatto. È successo così anche durante la direzione nazionale dove i veltroniani hanno prima rimesso i loro incarichi, poi hanno dichiarato che avrebbero votato no alla mozione del segretario Pierluigi Bersani e infine non hanno partecipato al voto e i loro incarichi sono stati confermati. In pratica tanto rumore per nulla. Sembrerebbe così, ma in realtà Chiamparino ha dichiarato che si è stufato di questa sinistra; Giuseppe Civati, braccio destro del sindaco di Firenze Matteo Renzi, si dice deluso da Bersani. Chissà se veramente lui e Renzi riusciranno a «rottamare» questa classe dirigente che è sempre la stessa da vent’anni? Una classe dirigente che, quando è nato il Pd, vede le primarie come la panacea di tutti i mali, ma nello stesso tempo anche il morbo principale del partito. Bersani non le vuole perché teme Vendola e non ha il coraggio di ammettere che preferirebbe che scomparissero. Il Modem, movimento democratico, area di riferimento dei veltroniani, teme che senza le primarie l’attuale segretario, su consiglio del mentore D’Alema, voglia abdicare lo scettro di candidato premier (come stabilirebbe lo statuto del Pd) per dar vita ad una coalizione che comprenda Vendola, Di Pietro e Pier Ferdinando Casini e che veda quest’ultimo sfidante di Silvio Berlusconi. Una prospettiva quest’ultima impraticabile e perciò il Pd dovrà scegliere: o con Sel e Idv o con il Terzo polo, ma data l’attuale situazione alquanto critica pare che ancora una volta prevarrà il ma-anchismo, l’indecisione più totale. E intanto si fanno sempre più insistenti le voci di un addio degli ex popolari guidati da Giuseppe Fioroni e dell’ex rutelliano Paolo Gentiloni (i due che durante la direzione nazionale avevano rinunciato agli incarichi di partiti) che passerebbero con il terzo polo o formerebbero un ennesimo nuovo partito di centro. La prossima puntata di quella che sembra una lunga e intricata telenovela è prevista per il 22 gennaio, giorno in cui Veltroni a Torino terrà il suo Lingotto 2. |
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