sabato 12 febbraio 2011

L'eterna lotta tra massimalisti e riformisti dilania il Pd

di Francesco Curridori
curridori@ragionpolitica.it
  
venerdì 17 settembre 2010

Ormai raccontare le vicende del Partito democratico è come sparare sulla croce rossa. Dalle politiche del 2008 in poi tutti i titoli dei maggiori quotidiani italiani sono stati perlopiù: Pd in stato confusionale. Alla lunga questa finisce per diventare una frase fatta ma è la più adatta per descrivere l'attuale situazione del primo partito d'opposizione. Non serviva la sfera di cristallo per pronosticare quello che sarebbe potuto succedere e che ora puntualmente si sta verificando, ossia il risveglio ufficiale della minoranza interna guidata da Walter Veltroni.
Apparentemente potrebbe sembrare una semplice lotta di potere tra due correnti in contrasto da più di vent'anni, ma in realtà la contesa tra i «democrat» veltroniani e gli «ulivisti» dalemiani non è altro che l'eterna lotta tra riformisti e massimalisti. Solo che nella sinistra italiana postmoderna, quella del dopo 1989 per intenderci, chi vuole prendere il potere assume di volta in volta l'uno o l'altro ruolo. A seconda del momento politico contingente chi guida l'opposizione interna al partito (sia esso Pds, Ds o Pd) decide se è il caso di assumere una linea più riformista, che escluda quindi i partiti di estrema sinistra, o viceversa scelga la via dell'Ulivo o dell'Unione e proponga di inglobare nella coalizione chiunque si opponga al «regime berlusconiano».
Le formule politiche come «la vocazione maggioritaria» o il «nuovo ulivo» sono create ad arte per attirare l'attenzione dei politologi, ma finiscono con l'allontanare gli elettori. Lo smarrimento dell'elettore di sinistra cresce sempre più a dismisura quanto più si susseguono le miriadi di dichiarazioni dei vari leader, locali o nazionali, del centrosinistra. Chi di recente ha puntato il dito contro l'establishment del Pd non è stato solo Veltroni col suo documento, ma anche il sindaco di Firenze Matteo Renzi ha attaccato il segretario Pierluigi Bersani, mentre l'ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari ha definito «una puttanata» il nuovo Ulivo.
Facile dunque prevedere che in questo marasma generale a trarne vantaggio siano stati Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. La sinistra radicale ed il popolo viola sono stati i protagonisti delle più grandi contestazioni avvenute durante la Festa democratica di Torino dove Raffaele Bonanni, leader della Cisl, è stato accolto con i fumogeni, mentre Franco Marini e il presidente del Senato Renato Schifani sono stati fischiati. Segno, questo, di un partito in rotta di collisione senza una leadership forte che abbia deciso se schierarsi con l'ala massimalista o con l'anima riformista della sinistra. Il Partito democratico annaspa e, in attesa di trovare tale leadership forte, si dilania al suo interno per la lotta alla poltrona di segretario anche perché il posto di candidato premier è vacante. Perché? Perché si è sciolto il nodo delle primarie? No, le primarie non si faranno perché l'ipotesi di elezioni, ogni giorno che passa, si allontana sempre di più e quindi cessa la necessità di scegliere se il segretario del partito debba essere anche il candidato premier (come vollero i veltroniani nel 2008), se si debbano fare le primarie (come vorrebbe Vendola) oppure se, come leader, la scelta debba ricadere su un «papa straniero», come ipotizzato in questi giorni da Veltroni e dai suoi fedelissimi. Quest'ultimo nodo verrà sciolto molto più facilmente se, come sembra, si concretizzerà la rottura con una scissione.

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